Dalla rivoluzione industriale in poi, l’uomo si è trovato al centro di un dualismo che ha sempre visto, da un lato, la corsa al progresso e, dall’altro, il totale disinteresse per le conseguenze ambientali. Sono stati due secoli di trasformazione e corsa sfrenata verso un teorizzato modello di benessere, che ha messo al centro l’uso e il consumo, con una particolare predilezione per i beni di breve durata.
Per lungo tempo, a livello globale, si è vissuto in un eterno presente, senza curarsi degli aspetti ambientali e arrivando a un aumento massiccio dei livelli di inquinamento. Quando Al Gore, nel 2006, pubblicò il suo film-documentario “Una scomoda verità”, e alzò i riflettori per primo sul problema del riscaldamento globale e sul cambiamento climatico, sembrava parlasse di un altro pianeta, di un altro mondo, di una versione fantascientifica della vita reale.
Eppure, già dagli anni Novanta la questione climatica, era entrata nelle agende dei capi di Stato e si discutevano i primi negoziati.
Nel 1992, a Rio de Janeiro, si tenne la prima Conference of the Parties (COP1). Fu questa l’occasione per stipulare la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC), il primo trattato internazionale – non vincolante legalmente – nel quale ci si impegnava a ridurre le emissioni di gas serra. Perché arrivi un vincolo legale bisognerà aspettare ancora cinque anni e la stesura del “Protocollo di Kyoto”, in cui l’Unione Europea prese una decisione netta, a dispetto di quanto fatto dagli Stati Uniti, stabilendo obiettivi vincolanti e quantificati di limitazione e riduzione dei gas ad effetto serra per i paesi aderenti. Seguiranno poi gli accordi di Parigi, in vigore dal 2016, e i i lavori di Bonn nel 2017.
L’obiettivo? Contrastare il cambiamento climatico e impegnarsi nel tentativo di abbassare di due gradi la temperatura della terra.
Sì, ma come?